I racconti di Massimiliano Malerba letti da Marco Onofrio

cop. stelle
Per scrivere su L’ostinato silenzio delle stelle (Roma, Rill, 2013, pp. 126), felice esordio in narrativa di Massimiliano Malerba, occorre partire dalle suggestioni del titolo. Un titolo che nasce dalla passione divorante di Malerba per l’astronomia, incrociata di rimandi creativi con la filosofia, la meditazione interiore, la “gaia scienza” del pensiero. Il «silenzio eterno degli spazi infiniti» (Pascal) si traduce qui nel «bisbiglìo sommesso dell’immensità»: cioè il rumore del vuoto, dell’essere, del mondo senza fine circostante. Il silenzio delle stelle è “ostinato”: la Natura, cioè, “ama nascondersi” (Eraclito), e quindi la verità è una “noce di senso” sfuggente, inafferrabile, irriducibile a ragione. Nel silenzio delle stelle è nascosta la cifra del mistero: e il silenzio dello spazio vuoto è lo stesso che vibra negli occhi degli animali, nell’inerzia opaca delle cose. Una domanda muta, che non trova mai risposte: tanto meno definitive o pacificanti. A noi, per converso, è data la parola: articolazione limitata dell’infinito, che racchiude e plasma il pensiero e collega la traccia visibile alla cosa invisibile, la presenza all’essenza, il fenomeno al noumeno. Così, siamo polvere e cenere dei cieli; ma … possiamo pensarli, in quanto esseri simbolici e linguistici, dotati di ragione e di parola. La poesia (come l’arte in genere) è la risposta che possiamo/dobbiamo alla morte che ci chiama dal silenzio delle stelle.

La dimensione aurorale di coscienza metafisica da cui procede Malerba rende “poetici”, anzi “poietici”, cioè creativamente vitali, questi 9 validi racconti: capaci di porsi ben al di là del genere fantastico in cui la pulsione a varcare i confini della realtà, evidente in ciascuna delle prove d’autore, tenderebbe immediatamente a collocarli. Tutto il libro, nel complesso del suo arco di sviluppo, diventa così un “alter ego” di Malerba, un frammento estratto dal suo interno, un ritratto esemplare dell’artista da giovane: egli vi concentra e sintetizza la sua visione del mondo, esperienze, idee, passioni, desideri, valori, carte topografiche, viaggi, rappresentazioni, preferenze, idiosincrasie, istinto e ragione, natura, spirito e cultura. Come procede lo sguardo-pensiero di Malerba? Con una dinamica di analisi/sintesi che nasce dalla sua viva curiosità, e quindi dalla sua attitudine, permeata di preparazione scientifica (è ingegnere aerospaziale, nonché fisico mancato): lui stesso scrive di «tremolio interiore della scoperta» e di «domande sulle questioni immense». Le visioni di Malerba passano al vaglio di un’attenzione estrema e sopracuta, di una strana lucidità medianica e al contempo iperrealista, e sono forgiate dal desiderio di non tralasciare nulla, di fare emergere ogni particolare nello specifico della sua importanza, di inseguire le cose nella loro multiforme, inesauribile varietà.

«Salgo le scale del palazzo. Gli interni sono di foggia antica, con pareti di marmo a grandi blocchi. L’ascensore è ingabbiato in una struttura di ferro battuto nero, a vista, in stile vittoriano. I gradini sono di pietra chiara».

Ecco ad esempio come passa dalla sintesi alla scomposizione analitica:

«Guardò a sud, verso i monti Matsuo: l’alba ormai stava cedendo il passo all’incedere impetuoso del sole e l’intera valle prendeva vita come fosse composta da una miriade di piccole creature verdi mosse in perfetta coordinazione dal vento».

Ma più di tutto gli è congeniale un movimento di “espansione” cosmica e, appunto, sintetica:

«(…) devo rendere la mia mente liquida. Devo lasciare che si espanda fino a contenere tutto: i fiori, gli alberi, le case, il canto degli uccelli, il vento, lo stesso Sole, i cuori degli uomini e i loro conflitti. Non sarà la mia spada a colpire, ma l’universo intero, attraverso me».

A proposito di sguardo, Malerba sembra molto interessato al problema dello spettro percettivo entro cui avvertiamo l’esistenza delle cose e, più in generale, ai tasselli cognitivi che formano il mosaico della coscienza, nei suoi stadi ordinari o nelle sue alterazioni neurochimiche, giù giù, fino all’oceano informe del buio incosciente. Conosce personalmente quel che scrive quando si immerge con coraggio in questi pozzi, senza rivendicare alcuna certezza di un’anima immortale, o di un aldilà a cui affidarsi. Eppure non si smarrisce mai nel labirinto dell’infinito e dell’infinitesimo: non abbandona mai il filo d’Arianna della ragione, la traccia luminosa della fede, laica e umana, che sgorga da tutto il suo essere.

La scrittura di Malerba oscilla in equilibrio tra fede e ragione, cioè tra cuore e mente, e trasuda l’empito grandioso di una tensione di altezza, un’ansia di eccellenza e perfezione. Non è affatto uno scrittore minimalista: «supremo» è, non a caso, uno degli aggettivi che preferisce, una parola-chiave. Ecco il fascino che su di lui esercita il Giappone, che ha contattato tramite le arti marziali e che propone modelli lucidi e affilati di rigore, di chiarezza etica e intellettuale. Può così scrivere che «il Vero e il Giusto» (con le iniziali maiuscole) «non possono soccombere» nonostante tutto; e infine chiedersi (rivendicando il cuore): «come vincere contro guerrieri che non sanguinano?» È necessario, insomma, lo scafandro catafratto della ragione; ma la ragione è inutile se non si sporca di sangue, in un corpo a corpo con l’Altro, l’atroce, il perturbante. Può essere il funzionario alieno preposto a divorare uomini, o l’ombra stessa del proprio sé futuro: Malerba affonda impavido la sua spada di samurai nel magma dell’informe e del terrore, affrontando l’abisso dell’angoscia, del panico, del disgusto, della repulsione, del dolore, dell’abiezione, dell’oscurità; da cui si ripescano «secchi di passato, volti annegati come pesci d’acqua dolce in un mare». Ecco il confronto serrato col Mistero: il freddo, il vuoto, l’inimmaginabile, ciò che pare impossibile da abbracciare con la comprensione; e la possibilità estrema di formulare un pensiero finalmente e auspicabilmente non-umano, articolando uno sguardo estroflesso, nuovo, divergente.

«La pelle era chiara, levigata, di colore latteo, attraversata da striature sottili e venature colore smeraldo. Nodosità ossee non corrispondenti a nessuna anatomia conosciuta spuntavano sotto le grinze della pelle accartocciata, come puntelli di un tendone. Ebbi il coraggio di guardare la sua faccia: qualcosa che non dimenticherò mai. Parlava di sofferenza, di tumori gravidi e opalescenti cresciuti nel tessuto stesso dei sogni, infranti ormai definitivamente tra le braccia della marea montante».

È possibile concepire e scrivere qualcosa che non sia sempre e comunque riconducibile, per somiglianza o derivazione, all’esperienza umana? Possiamo uscire da noi stessi? Aprirci alla totalità dello spettro percettivo? Spezzare i limiti della “rappresentazione”? Malerba si impegna a mostrare che il punto di vista antropocentrico – e qui si tocca lo spessore filosofico del libro – è illusorio e oltretutto presuntuoso, rispetto all’apertura omnidirezionale dell’immensità: come le costellazioni dello zodiaco in cielo, che sono miraggi, figure prospettiche ingannevoli, legate al nostro punto particolare di osservazione. Ci vuole il «pensiero che toglie il fiato»: il confronto con il vuoto infinito del cosmo, e con la morte che, prima o poi, ci mangerà il naso. Il pensiero che annega nella vertigine del vuoto. L’uomo visto “sub specie aeternitatis”, alla luce delle stelle e nel suono del loro “ostinato” immutabile silenzio.

Dal cuore stesso del fantastico, sull’onda piena dell’onirismo più spinto, emerge così la chiarezza metallica di un “realismo assoluto” che prefigura il penultimo scenario raggiungibile dalla conoscenza (entro i limiti umani). Ecco allora la verità vera sulla vita, che «si consuma cieca tra i fili d’erba» anche ora, in questo istante, come «sanguinolenta, incessante battaglia». Ed ecco il concetto non illusorio della cosiddetta Giustizia cosmica.

“Non esiste la Giustizia, Dottore” replica il Funzionario. “È un puro costrutto umano. È un’illusione; comuine, se vuole; oserei dire classica. Accade sempre. Voi Terrestri adorate infarcire il vostro apparato percettivo con paradossi e patine illusorie che non hanno alcuna collocazione nella realtà delle cose. Vi vestite letteralmente di veli mayani. Si guardi intorno. Non molto lontano: basta scendere negl giardino sotto casa. Lo sa cosa accade, in questo stesso istante, in quel pezzo di aiuola? Ne vedrebbe, di cose mirabili. Vada da un coleottero la cui testa è stata appena recisa dalle mandibole di una mantide, e gli esponga il suo concetto di giustizia sociale. Provi a parlarne col bruco all’interno delle cui morbide carni la prodigiosa vespa Icneumone ha inoculato le sue larve vive, affamate di tessuti, che lo lacereranno dall’interno cibandosene. Credo si instaurerebbe un dialogo molto interessante, su ciò che è lecito e ciò che non lo è, antropologicamente parlando. Non pensa?”

I personaggi di Malerba sono spesso degli sconfitti, dei guerrieri sanguinanti con impressi i segni fisici e psichici della battaglia, la strenua resistenza esercitata contro il Caos di un mondo dove tutto fluttua, anche quelli che paiono appigli, e di un futuro tutto da scrivere, che non è in grado di offrire garanzie. Il modello assoluto del pensiero è un binomio di cultura e civiltà che superano se stesse per tornare ad essere natura, coincidendo con la legge necessaria e superiore impressa dall’eterno nelle cose. Come l’animale predato, quando si affida con rassegnata fiducia al predatore che sta per ucciderlo: entrambi funzionali all’espletamento del “de rerum natura” che li trascende, al di là del bene e del male. Forse è questa la forma più alta di saggezza che il libro prefigura, tra le sue pagine più intense.

L’architettura dei racconti è sapiente e compiuta, nelle sue strutture formali. Malerba, benché esordiente, si dimostra scrittore provetto nell’alchimia compositiva, nel giusto dosaggio di parti, toni, ritmi. Si contano almeno tre piccoli e intensi “capolavori”: “Le stelle d’inverno”, l’eponimo “Ostinato silenzio” e “Corrispondenze”. Splendido anche “Il colloquio di lavoro” per la dimensione semiotica di codici, sottocodici e metacodici: un racconto che avrebbero amato Calvino e Roland Barthes, e che piacerebbe molto a Umberto Eco. Ci troviamo di fronte, insomma, a un’opera prima con tutte le carte in regola: per la potenza evocativa delle storie, la gestione dei tempi narrativi, la ricchezza espressiva e la precisione lucida delle parole. Chapeau dunque al talento di questo nuovo scrittore, che ci nutre la fantasia con immagini potenti e inarrestabili, ci intrattiene con intelligenza a tratti geniale, e ci scuote con forza per ricordare a tutti il potere dei sogni come «idrocarburo vitale, linfa oleosa dei muscoli che ci sostengono in piedi e ci fanno sguainare il cuore, liquido motore dell’umanità. E che senza sogni rabbiosi e vivi» nessuno potrà mai lasciare «la triste voliera che ci avvolge dalla nascita, per librarsi verso uno spazio più grande». Ed è così che, infine, Massimiliano Malerba dà appuntamento a tutti i suoi lettori: nel pianoro di cui scrive nell’ultima pagina dell’ultimo racconto, «un pianoro assolato e sconfinato di sogni, un eterno altopiano dove correre insieme, a perdifiato, dentro all’estate».

5 commenti
  1. Gentile signor Panicucci, il blog di Erato è nato per essere un confronto di poesia e critica della stessa, confronto letterario, non certamente un catalogo per vendita di libri, diciamo così un “libromarket”. Chi è interessato alla silloge o al romanzo proposto sa come fare per ricercarli. Trovo il suo commento(libromarket) inopportuno, e chiedo ai miei collaboratori di prendere la dovuta decisione, ovvero eliminare il commento.

  2. Ho avuto l’onore e il piacere di partecipare, in qualità di co-presentatore, alla presentazione romana dei racconti di Malerba, che mi sembrano una bella prova di stile e narrazione.
    Vanno premiate in tal senso, oltre fin troppo ovviamente alle doti degli autori selezionati (fra i quali il Nostro), le Associazioni letterarie serie, dedite al loro lavoro con un livello di competenza purtroppo raro persino fra i professionisti del settore, quale quella che ha voluto e permesso l’esistenza di questa silloge di racconti (oltre che di altre pubblicazioni, anch’esse a mia conoscenza non lucrative). Associazioni in assenza delle quali la pur doverosa affermazione di alcuni autori rischierebbe l’oblio a cui questo paese è in grado di dannare la cultura, talora senza appello.
    Cordialmente,
    F. Troccoli

  3. Voglio ringraziare pubblicamente Marco Onofrio per questa bellissima recensione. Marco ha saputo evidenziare e mettere in risalto con grande maestria e notevole spessore i temi fondamentali a me cari, intorno ai quali cerco di costruire la mia narrativa e che spesso arrivano ad essere vere “ossessioni” creative. Marco, da grande autore e soprattutto persona, sa vedere nell’anima delle cose e lo dimostra in modo impeccabile con questo intervento, di cui sono onorato.

    Un caro saluto,
    Massimiliano Malerba

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