Gianni Vacchelli, “Arcobaleni” letto da Adele Desideri

vacchelli9_Layout 1Gianni Vacchelli, Arcobaleni, Marietti, 2012, pag. 103, euro 15
Gianni Vacchelli è docente, scrittore, fine saggista, esperto interprete de La Bibbia e del pensiero di Raimon Panikkar. Arcobaleni è il suo primo romanzo: apocalittico, temprato da un’impetuosa energia visionaria, è un libro che s’illumina in un fiume di originali fiamme oniriche e si distingue per l’intensità dialettica delle riflessioni dello stesso autore, che si intrecciano, lungo la trama, a numerose citazioni – anche implicite – tratte in primis da La Sacra Scrittura e da Panikkar. E ancora, da Plutarco, Diodoro Siculo, Annick de Souzenelle, René Girard – con la sua illuminante teoria del “capro espiatorio” – Ivan Illich: “L’escalation del potere di autodistruggersi è divenuta il rito sacrificale delle società altamente industrializzate”.
La prosa di Vacchelli è segnata, inoltre, da un forte accento profetico, in armonia con la migliore tradizione biblica. Ricorda, soprattutto, lo stile – veemente, ridondante, e poi spezzato e singhiozzante – del Deutero Isaia: non ha pace, tira la pagina rigo dopo rigo, la stringe, la strappa quasi, e infine la distende in forme voluttuose e tragiche, tenebrose e meditate, laceranti e lacerate.
Vacchelli impreziosisce, poi, il testo con un continuo, dotto, rimando al significato etimologico dei termini, in specie di quelli attinti dalla profondità semantica dell’antico alfabeto greco.
E crea, in Arcobaleni, le tracce sicure, e al tempo stesso dinamiche, di una metafisica anti-ideologica, e perciò anti-assolutistica – di influenza cristiana, non tomistica, in qualche misura blondeliana – che, mentre cerca i sentieri del bene ed evidenzia le furberie del male, si rarefa intorno alle vette di una tonalità corposamente lirica. Una metafisica che utilizza non solo le certezze del logos, ma anche, e per lo più, le feconde ambivalenze dell’intuizione, del sentimento, della sensibilità.
Filosofia e solarità immaginativa, severa, corretta laicità e considerazioni teologiche, denuncia sociopolitica e possibili esiti di speranza sono le polarità attraverso cui Vacchelli getta semi di sapienza in una storia di strisciante dolore e saltuaria – infantile e quindi vera e autentica – gioia.
Il protagonista del romanzo, infatti, è Elia – i capelli “ramati, incendiati dal sole” – un ragazzino che possiede una vista particolare, una “seconda vista”, in virtù della quale discende e scorge luoghi misteriosi, noti a lui solo, ove incontra personaggi altrettanto arcani, che dialogano con lui – e lui solo: “un vecchio lama tibetano, piccolo e grasso”, e, tra immensi boschi irradiati da luci scintillanti, due ombre, che gli intimano: “Devi liberare l’aurora”.
E corvi, “Grandi uccelli dagli occhi gialli enormi e inespressivi, come sentinelle, ottuse e feroci”.
E, pure, una “rilucente pietra” – l’“oriental zaffiro” – che danza, seducente, “affusolata numinosa”, mentre il corpo del lama si mellifica, diviene “miele, ambrosia”.
E, ancora, un bambino, che vive, e parla, dentro Elia e si chiama Tommaso…
Ma coprotagonista, insieme a Elia, è l’estate – stagione di scorribande, di gioco, di leggerezza, di libertà:

“Per Elia l’estate fu donna, non solo mamma, e nei suoi ardori flagranti per la prima volta gli adombrò qualcosa dei misteri muliebri. Un bacio turbinoso, folgorante, arcano, periglioso persino”.

Anche il filo del racconto, allora, si snoda lungo il sentiero dei dualismi: la gioia e il dolore, certo, e l’estate e l’inverno, il mondo dei bambini e il mondo dei vecchi (la nonna di Elia, affaticata e burbera), il fiume e la montagna, la vita e la morte (l’amico di Elia cade da un tronco: dopo un terribile periodo di coma, si riprende, ed è quasi un miracolo. E la nonna ritrova attimi di dolcezza nei meandri delle sue sofferenze remote – poi muore), la realtà e l’inconscio (l’onnipresente, algebrico bosco della Valle d’Aosta), la natura e la città, “dove le stelle son nascoste, (…) il bianco s’imbratta subito anche se fa capolino, (…) persino l’estate imbruttisce e sembra fuori posto”.
Dualismi che caratterizzano l’animo di Elia, e quello di suo padre, uomo taciturno, studioso, di sintetica saggezza, che comprende il figlio e non lo opprime, ne custodisce i segreti – e non li altera con il freddo riduzionismo dell’età matura.
Pregnante, infine, l’accorato, essenziale richiamo – addensato soprattutto nella seconda parte del volume – nei confronti della società contemporanea, perché si risvegli dal torpore malato indotto dai dettami omnipervasivi della ragione tecno-economica:

“Allora la pace non c’è e se c’è è falsa. La Guerra continua. È sempre lei, è sempre qui. Truccata, rifatta, tremendamente volgare, e per molti (quasi tutti) ancora terribilmente seducente, la vecchia troia”. “E poi? evolvere, progredire, sì, ammodernare, industrializzare, tecnologizzare, informatizzare l’olocausto… (…) Basta un portatile. E lavoratori devoti alla causa”. “L’esito di distruzione che scorre davanti ai nostri occhi, alle nostre menti e ai nostri cuori, spesso troppo inerti, ci sottopone improrogabile la questione della vera natura dell’uomo e della civiltà.
Chi sono Io?”.

Intanto, Elia cresce, e il padre si allontana dagli anni della gioventù, mentre la madre, nel libro, è quasi assente. La sua assenza è compensata, però, dall’apparizione, in ultimo, di una donna che si manifesta con maestosità escatologica:

“i denti bianchi e abbacinanti, il corpo di giovane palma, danzante, vestita di primavera, intrecciata di spighe, redimita di sole”. Il suo nobile canto induce Elia a indirizzare lo sguardo verso l’alto, dove “s’intravede una figura, un diaspro, traslucido, come brace su cui crepita la vampa, che sale, dal turbine, circondato da uno splendore, simile a smeraldo”.

La donna col respiro tutto avvolge il bimbo Elia-Tommaso, il bimbo-profeta. Il bimbo che in sé racchiude l’intima esperienza dell’eterno, la sua umile consegna – sublime kènosi, infinito amore, salvezza per l’umano genere.

1 commento
  1. SULL’AGGETTIVAZIONE FACILE

    «Ricorda, soprattutto, lo stile – veemente, ridondante, e poi spezzato e singhiozzante – del Deutero Isaia: non ha pace, tira la pagina rigo dopo rigo, la stringe, la strappa quasi, e infine la distende in forme voluttuose e tragiche, tenebrose e meditate, laceranti e lacerate.»

    Veemente, ridondante, spezzato, singhiozzante, voluttuose, tragiche, tenebrose, , laceranti e lacerate…
    A: Dimmi quanti aggettivi usi in tre righe e ti dirò dove vuoi portare il lettore…
    B: Dove?
    A: Dove ogni sostanza svanisce, «in una storia di strisciante dolore e saltuaria – infantile e quindi vera e autentica – gioia». Dove non si capisce quali siano «i sentieri del bene» e non si evidenzia una sola delle «furberie del male».

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